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Ricordo bello, ricordo brutto

 L'altro Zachòr

Pubblicato nel mensile Shalom - Novembre 2014, Roma

"Zachòr! - Ricorda!" Parola che conoscono in molti per le connotazioni legate al ricordo del passato, alle sofferenze subite dal popolo ebraico e soprattutto alla Shoah. Questo "zachòr" è appunto molto conosciuto ma vi è anche un altro zachòr.

Narra un'antica fonte (Pirké deRabbì Eli'èzer):

Quando Moshè disse "Ricorda ciò che ti fece 'Amalèk per la strada quando sei uscito dal Egitto" gli ebrei gli dissero: Moshè Rabbènu un verso dice "zachòr-ricorda ciò che ti fece 'Amalèk" e un altro verso dice "zachòr-ricorda il giorno dello Shabbàt per renderlo sacro"; come potranno coesistere entrambi? Questo zachòr e quel zachòr?

I maestri spiegano il senso della domanda. Effettivamente è come se il Midrash dicesse che tra questi due ricordi vi è una contraddizione di base.

Lo Shabbàt rappresenta la fede in D-o che ha creato il mondo in sei giorni e il settimo giorno per il riposo, come indicato nella Torà stessa e nella liturgia dello Shabbàt.

'Amalèk, d'altro canto, rappresenta il negare la presenza divina nella peggiore delle maniere, quella deliberata e voluta.

I precetti della Torà possono essere suddivisi in tre categorie generali quali quelli da mettere in atto concretamente, quelli legati invece alla parola e quelli che rimangono nel mondo del pensiero. Il ricordo, il precetto di "zachòr", appartiene a quest'ultima categoria visto che, a parte gli aspetti concreti dei relativi precetti, l'invito è proprio a ricordare e quindi di mantenere in mente un pensiero o, meglio, un modo di pensare. Da qui nasce il problema.

A quale di questi due "ricordi" bisogna dedicare il proprio pensiero, la propria concentrazione e meditazione? Bisogna dedicare più energia a ricordare il Sign-re oppure a ricordare chi Gli si contrappone?

Certo, bisogna ricordare 'Amalèk per poter cancellare il suo nome (ovvero il suo effetto) ma alla fine ci si occupa di chi si contrappone a D-o! Inoltre, se ci si concentrasse su questo tipo di ricordo si verrebbe sicuramente a minimizzare la concentrazione sull'altro essendo i due in netta contrapposizione. Non possono, come dice il Midrash, coesistere.

Torniamo alla citazione. "Gli rispose Moshè: Non non si può paragonare un bicchiere di conditum (vino speziato) a un bicchiere di aceto; tuttavia questo è un bicchiere e quello è un bicchiere. Ricorda per osservare e santificare il giorno dello Shabbàt come è detto 'ricorda il giorno dello Shabbàt per renderlo sacro' e questo ['Amalèk] è ricordato per essere punito".

Forse, per approfondire, si potrebbe suggerire che nella sua risposta Moshè voleva delucidare che esistono due modalità di zachòr-ricordo.

Ci sono alcune cose che si ricordano con piacere ed entusiasmo ed è questo il tipo di ricordo da applicare allo Shabbàt. Altri ricordi vanno tenuti molto fortemente per il timore di non decadere in un certo tipo di comportamento o di mentalità, ma sono ricordati per essere evitati e quindi il ricordo pur essendo è d'obbligo non è piacevole ed entusiasmante.

Il Midrash sceglie l'esempio del vino speziato (una bevanda molto pregiata all'epoca) e l'aceto.

E' ovvio che il vino è il liquido preferibile tra i due ed è quello che è consumato con piacere. A volte però bisogna consumare l'aceto, se come medicinale (come veniva adoperato) o quant'altro, ma non è certo un'esperienza piacevole.

Il ricordo-zachòr dello Shabbàt è quello che si mette in atto con entusiasmo, con gioia e con piacere. Il ricordo di 'Amalèk, d'altro canto, lo si tiene per forza maggiore: bisogna ricordare anche che c'è chi nega il Creatore e bisogna guardarsi dal cadere in quella trappola.

Nella società odierna siamo più abituati a sentire il "zachòr" legato al male, alla Shoah, che il "zachòr" dello Shabbàt.

E' chiaro però che l'ebraismo vivrà sulla base di esperienze positive e ricordi piacevoli.

Mentre il "zachòr" di 'Amalèk è anch'esso una mitzvà, è opportuno tenere presente che ci ricorda cosa non fare. Lo "zachòr" dello Shabbàt, invece, è quello positivo e quindi quello sul quale dovrebbero concentrarsi la maggior parte delle nostre forze.

"Zachòr" per continuare ad esistere ebraicamente!

di Shalom Hazan
Direttore di Chabad-Lubavitch di Monteverde (Tempio Colli Portuensi, Gan Rivkà).
L'idea principale dell'articolo è adattata dall'opera Likuté Sichòt del Rebbe di Lubavitch

Si Può Tradurre la Torà?

 Domanda: 

 

Perché si digiuna per rammaricarsi della traduzione dei settanta, che fu fatta da maestri ebrei e che fu letta dagli ebrei di lingua greca, mentre il Targum in aramaico di Onkelos fu accolto positivamente dal mondo ebraico?

La domanda si riferisce alla famosa traduzione "versione dei Settanta" (Septuaginta in latino) commissionata dal sovrano egiziano Tolomeo II Filadelfo (regno 285-246 a.e.m.) e a quella del convertito all'ebraismo Onkelos, parente dell'imperatore Adriano (secondo altri, parente di Tito).

Risposta:

 In realtà la Torà (scritta) è intraducibile. Chiunque vede la Torà scritta, formata semplicemente da delle lettere (solo consonanti!) sulla pergamena, capisce che servono degli strumenti per accedere al suo significato.

Alcuni di questi strumenti fanno parte del testo ma sono indicati (almeno in origine) solamente dalla tradizione trasmessa oralmente. Tra cui le vocali (essenziali perché le stesse lettere-parole senza le vocali potrebbero avere significati diversi) e le note del canto (che aiutano moltissimo soprattutto ad inserire punteggiatura ma anche in moltissimi casi a contestualizzare meglio e capire il senso). Anche i "taghìn" (le coroncine sulle lettere) hanno il loro significato. 

 Questo vuol dire che una traduzione, qualsiasi traduzione, deve necessariamente prendere in considerazione questi elementi che non sono scritti sul testo. In altre parole, la traduzione deve considerare la Torà Orale, che è la chiave di accesso alla Torà scritta.

 Se la traduzione non prende ciò in considerazione, non corrisponde al testo originale. 

Il problema è che anche una traduzione che dovesse prendere in considerazione solo questi elementi, sarebbe comunque estremamente carente in quanto vi sono altri elementi da tenere presente. 

 La Torà ha un proprio modo di esprimersi. Innanzitutto la Torà usa una forma breve, quasi stenografica, e quindi, ovviamente, non può essere tradotta così come è. Nella lettura dell'originale, seppur abbia questa forma, siamo aiutati dagli elementi sopra indicati per capire il senso.  

Inoltre, la Torà ha delle regole tra cui:  

- Non esistono ripetizioni. Quando leggiamo nella traduzione qualcosa che sembra essere ripetizione vuol dire che ci manca qualcosa.  

- Vi sono delle parole uguali che possono assumere significati diversi.  

- Sinonimi, nella lingua sacra, sono praticamente inesistenti. Parole diverse che sembrano indicare soggetti simili, indicano in realtà diversi aspetti del soggetto o verbo che sia.  

- A volte i versetti estremizzano la stenografia, lasciando addirittura dei versetti "stroncati" a metà quando la restante parte dovrebbe essere ovvia a chi legge (e sicuramente lo sarebbe se avesse gli elementi di corretta lettura in mano!)   

Tutti questi ed altri elementi hanno fatto sì che, nella mancanza di conoscenza o di rispetto di essi, sono nate delle traduzioni che in molti casi non hanno alcun senso. Troviamo parole uguali ma con significati diversi tradotti sempre nella stessa maniera con risultati devastanti. Soggetti uguali con nomi diversi con risultati simili. E così via. 

Si potrebbe allungare molto ma per tornare alla domanda:  

La traduzione dei 70 è stata commissionata da altri secondo dei loro criteri ovvero che la Torà dovrebbe essere stata tradotta come un qualsiasi libro, traducendo più o meno al letterale. In realtà però la Torà è intraducibile. 

La traduzione è stata una tragedia perché ha praticamente chiuso la Torà al mondo, limitandola e dando vita a delle traduzione ancora peggiori. 

Tutto il mondo finora legge queste traduzioni e le loro varie evoluzioni, effettivamente leggendo un libro che però Torà non è. 

In realtà, molte delle critiche che vengono fatte nei confronti della Bibbia hanno ragione. Solo che non è la Torà l'opera che stanno criticando, bensì una traduzione errata! (Ovviamente per la maggior parte non lo sanno).

La traduzione di Onkelos, d'altro canto, è stata preparata sotto la supervisione o su ispirazione degli insegnamenti dei più grandi Maestri della tradizione, ovvero di quelli che hanno da sempre conservato gli elementi originali e corretti di lettura della Torà (Rabbì Eli'ezer e Rabbì Yehshu'a).

Onkelos in realtà non è tanto una traduzione quanto un commento, che prende in considerazione tutti i suddetti elementi in una maniera sorprendentemente chiara e profonda al tempo stesso, fino a far diventare la sua traduzione uno degli elementi base per la comprensione della Torà e fino al punto che i Maestri hanno dichiarato che quanto scritto da Onkelos era stato detto al Sinai (indicando quindi l'autenticità del suo commento-traduzione).

 In realtà la "traduzione" di Onkelos è Torà Orale! Proprio perché non pretende di "tradurre" la Torà, ha la possibilità di rimanere fedele al senso originale.

Per concludere, qualche esempio:

Nella Parashà della settimana scorsa, Lech Lechà, D-o promette ad Avrahàm che gli avrebbe fatto nascere un figlio da Sarà. La reazione di Avrahàm è che cade sul volto e poi 'va-yitzchàk' (17:17). Verbo che normalmente è tradotto con ridere. Nella Parashà di questa settimana, Vayerà, quando Sarà sente dagli angeli la stessa promessa la Torà impiega lo stesso verbo 'va-tizchàk' (18:12).

Nel Onkelos notiamo subito che lo stesso verbo ha significati diversi. La prima volta traduce "gioì" e la seconda "rise". Avrahàm fu gioioso mentre Sarà rise incredula. (Il tutto è anche confermato dal rispettivo contesto).
Le false traduzioni non si sono resi conto di questa differenza.

Un altro esempio classico è alla fine di Bereshìt dove si parla della corruzione dell'umanità. Nel 6:2 e 6:4 si fa riferimento ai benè elohìm cosa che molti hanno tradotto con figli di dio. In realtà nel contesto non ha alcun senso, come molti altri versi tradotti male.

Come indicato da Onkelos, la traduzione corretta di elohìm in questo contesto non è un nome di D-o (e anche quando lo è ha un significato specifico; come indicato sopra non ci sono sinonimi), bensì semplicemente è un riferimento ai nobili, ai principi, insomma a chi comanda. La Torà dice che i loro figli facevano come gli pareva... (Per fortuna le edizioni italiane più moderne del mondo ebraico hanno corretto molti errori comuni.)

Un altro importantissimo aspetto del Targum Onkelos è il suo modo geniale di evitare l'antropomorfismo del quale sono afflitti le traduzioni che trasmettono il letterale. E' inutile sottolineare l'importanza di questo aspetto del Targum, con il quale ci insegna (ciò che era stato insegnato a lui) che quando la Torà usa termini come "la mano di D-o" e simile, non è mai stato inteso nel senso letterale.

Buono studio!

Rav Shalom

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